Si celebra in questi giorni il trentennio dalla scomparsa di Aldo Moro, ucciso il 9 maggio 1978 dalle Brigate Rosse a Roma. Aldo Moro, cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri, fu presidente nazionale della F.U.C.I. (federazione universitaria cattolica italiana) tra il 1939 e il 1941. Il sacrificio di Moro, e dei cinque componenti della sua scorta, ha un significato non episodico, ma epocale nella vita del nostro paese. Aldo Moro è stato prima di tutto un grande “fucino”, il quale dopo l’esperienza alla guida degli universitari cattolici, impose il suo “valore superiore” nella scena politica nazionale, in primis nella Commissione preparatoria della Costituzione, emergendo per la sua competenza giuridica. Nel prosieguo degli anni contribuì in modo determinante al consolidamento dell’Italia democratica, dopo i disastri del ventennio fascismo e della guerra, con una dedizione al ‹‹bene comune››, alla comunità, che oggi è raramente riscontrabile. Aldo Moro prima di diventare con Amintore Fanfani un “cavallo di razza” della Democrazia Cristiana, è stato un grande cristiano, poi un grande intellettuale, per il quale la politica non aveva un valore se dietro non vi fosse stata una precisa cultura: cristiana, marxista, o liberale che fosse. Ad un recente convegno della F.U.C.I. triveneta, Francesco Cossiga definì Moro: ‹‹un “maritaniano”, sostenitore del “primato dello spirituale” che non si sarebbe mai “ribellato” al Papa, neanche in materia politica, come fece invece De Gasperi con Papa Pio XII››. Per questo egli fu un grande leader politico-ideologico: forse, con Giulio Andreotti, il più grande uomo di governo del dopoguerra dopo Alcide De Gasperi. Aldo Moro è stato uno statista che sapeva vedere nel quotidiano il segno dei tempi e sapeva cogliere il “senso politico” delle istanze di cambiamento della società italiana. Già negli anni Sessanta percepì l’esigenza di invocare apertamente “un nuovo senso del dovere” nell’attività politica. Purtroppo il suo richiamo più volte citato, “questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà un nuovo senso del dovere”, non fu allora adeguatamente ascoltato. Con la sua viva sensibilità per tutto ciò che riguardava i fermenti della società italiana, Moro maturò prima di tutti una interpretazione dei “tempi nuovi” in cui si trovavano ormai gli italiani a trent’anni dalla costituzione del regime democratico. Tutta una nuova generazione, nata dopo la fine della guerra, entrava allora con il suo “modo di pensare” nella vita politica del paese: le agitazioni studentesche e gli stessi deragliamenti violenti di minoranze ne erano un segnale vistoso. Aldo Moro si sforzò di interpretare i riflessi di tutto questo anzitutto della posizione della Democrazia Cristiana. Il suo intravedere con anticipo la “via politica” dal centro al centro-sinistra non mirava a “numericamente necessarie” alleanze con il Partito Comunista, ma ad un’apertura controllata che favorisse l’evoluzione reale di quel partito verso la democrazia. L’obiettivo era una sorta di ancoraggio istituzionale del PCI, che rendesse più ampia e stabile la base stessa della democrazia sostanziale in Italia. Gli scritti e i discorsi di Moro rivelano questa sua grande capacità di leggere il corso degli avvenimenti, in un modo che nessun altro politico del suo tempo è stato capace di eguagliare. Leggere le sue pagine - sui giovani, sulle riforme della scuola, sul mutare della questione meridionale- significa, un po’ a malincuore, misurarsi con una serie di occasioni perdute, che forse non sarebbero rimaste tali se Moro avesse potuto portare avanti il suo disegno di modernizzazione. Un altro aspetto centrale nel pensiero e nell’azione politica di Moro è stata la sua innata propensione al dialogo. Un dialogo a tutto campo, fondato sulla convinzione che finito il tempo delle contrapposizioni frontali, il paese avrebbe dovuto trovare un terreno di incontro fra tutte le sue tradizioni, compresa quella comunista: un lungimirante progetto di pieno reinserimento nello Stato di tutte le grandi componenti politiche, ideali e sociali dell’Italia. Un esempio tipico fu il suo atteggiamento alla fine del 1977 e all’inizio del ‘78 quando, con un bellissimo discorso ai gruppi parlamentari D.C, li convinse che era venuto ormai il tempo di passare gradualmente dal cosiddetto “governo delle astensioni” a quello delle “larghe intese”. Col senno di poi si può sostenere che presagì la deriva del sistema politico italiano che agli inizi degli anni Novanta si sgretolò per le cause che tutti conosciamo. La morte di Aldo Moro ha segnato inesorabilmente il destino dell’Italia: la sua presenza avrebbe permesso alle istituzioni negli anni Ottanta di preparare il terreno per un graduale superamento della prima Repubblica, ormai logora e “inadatta” a gestire le conseguenze della caduta del Muro. È possibile ipotizzare che con l’opera di “mediazione politica” di Aldo Moro probabilmente non si sarebbe consumata con tanta violenza politica Tangentopoli, e il post prima Repubblica avrebbe visto una riorganizzazione più “mite” dei blocchi di centro destra e centro sinistra. Non tanto per i tentativi di Aldo Moro di aprire la strada al “patto di centro-sinistra” ma perché le istituzioni e i partiti avrebbero trovato gli ammortizzatori per auto-modificarsi e forse riformarsi in positivo. La sua scomparsa gravò enormemente sul nostro paese, per aver privato la nostra democrazia di una guida illuminata che avrebbe potuta gradualmente condurla ad una saggia, crescente e definitiva stabilità nella solidarietà democratica.
Luigi Marcadella (Incaricato regionale Triveneto F.U.C.I.)
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