lunedì 21 luglio 2008

Due Destre, due Italie

[Scelti per voi]
di ILVO DIAMANTI
Le tensioni che scuotono il centrodestra tendono ad essere svalutate. In particolare le schermaglie fra Bossi e Berlusconi, a cui ci siamo abituati da decenni. Frequenti, talora aspre, ma non producono mai veri strappi. Se si eccettua la frattura avvenuta nel lontano 1994, pochi mesi dopo la formazione del primo governo Berlusconi. Ma quella era un'altra epoca. Meglio, quindi, non equivocare. L'alleanza durerà a lungo. Tuttavia, la convivenza non sarà facile e neppure quieta, perché oggi sotto lo stesso tetto abitano due destre. Divise dalla geografia, dai valori, dagli interessi rappresentati. Che è assai più difficile del passato comporre. "Colpa" della semplificazione prodotta da Berlusconi, il quale, per rispondere al Pd e a Veltroni, ha allargato il suo "partito personale". Ha "inventato" e imposto il Pdl, associando Fi e An. Ma non l'Udc, che, anzi, è stata spinta fuori dall'alleanza. Il successo della Lega, in fondo, risponde alla nascita di una nuova destra. Che, soprattutto nel Nord, appare fin troppo "romana", nazionalista, protezionista, per non produrre una reazione popolare. Come nel 1996. Quando la Lega ottenne un consenso molto ampio anche perché sfidò Fi e An, alleati nel Polo. Figurarsi oggi che sono dentro a un unico partito.
Il centrodestra, si è, dunque, "bipartitizzato". Diviso fra due soggetti politici distanti, per alcuni importanti aspetti. Anzitutto, dal punto di vista geopolitico. La Lega ha sfondato nel Nord, in prevalenza a spese del Pdl. Il quale ha conseguito il maggior grado di crescita elettorale nel Mezzogiorno e nelle Isole. Soprattutto in Sicilia. Tra le province dove ha ottenuto i migliori risultati, solo una è del Nord. Imperia, feudo di Scajola. Nel Lombardo-Veneto, invece, è cresciuto il peso della Lega. L'Italia del Pdl è, quindi, uno stivale rovesciato, la cui principale zona di forza è divenuta la Sicilia. Tanto più dopo le performance straordinarie ottenute alle amministrative di giugno. Ne emerge un partito dallo sguardo strabico sui problemi e sulle domande degli elettori. Che hanno, in effetti, orientamenti diversi, messi in evidenza dai sondaggi.
Gli elettori della Lega appaiono, infatti, maggiormente ostili agli immigrati e all'euro; più lontani dallo Stato e più disponibili ad aumentare l'intervento privato nei servizi pubblici. Ma soprattutto: rivendicano federalismo. Come progetto, ma anche come parola magica, che evoca "indipendenza". Simmetricamente, gli elettori del Pdl dimostrano maggiore domanda di intervento dello Stato, soprattutto (ma non solo) con funzioni di "ordine pubblico" (attraverso l'impiego dell'esercito nelle zone più insicure), sono prudenti nel richiedere la privatizzazione dei servizi, hanno maggiore fiducia nei confronti delle organizzazioni di grande impresa. Il Pdl, quindi, presenta un mix di orientamenti socioculturali che ne riflette l'impianto elettorale, prevalentemente centromedionale. E ciò lo distanzia dalla Lega. Il che rende difficile, al governo, delineare una politica comune e coerente. Perché federalismo fiscale e protezione pubblica sono rivendicazioni difficili da conciliare, nonostante la capacità creativa del "tremontismo". Tanto più in questa fase contrassegnata da ristrettezze di bilancio, vincoli internazionali, stagnazione globale. In questa destra bipartitica tende a indebolirsi anche il ruolo di Silvio Berlusconi. Perché non è solo il premier: è il leader del Pdl. Il partito più forte della coalizione, dal punto vista elettorale. Ma non dal punto di visto politico. In quanto, senza la Lega, neppure il Pdl dispone della maggioranza in Parlamento. Non può vincere alle elezioni. Perché, inoltre, senza l'Udc, mancano ammortizzatori che assorbano gli strappi, dal punto di vista politico, ma anche del linguaggio e della comunicazione. Ben diversa era la situazione nel precedente governo, quando il premier Berlusconi guidava Forza Italia. Il partito principale di una coalizione frastagliata, di cui Fi era colla e, al tempo stesso, cornice. La Casa comune di persone e posizioni difficilmente compatibili. Forza Italia teneva insieme il Nord leghista e il Sud di An e dell'Udc. Il Pdl è un'altra cosa. Molto diverso dalla Lega, per orientamenti e valori. Geografia. Così Berlusconi per la Lega è anzitutto il leader del Pdl, l'Altro Partito del centrodestra. Con cui è necessario convivere. Ma da cui occorre guardarsi e smarcarsi. A questo serve la costante pressione esercitata da Bossi nei confronti del Cavaliere. Trattato come un amico sempre più inaffidabile, perché ossessionato dai magistrati (e dalle donne), stressato da una sindrome da assedio, preoccupato, in modo quasi isterico, dai "fatti propri". Un alleato necessario, da richiamare di continuo al rispetto dei patti. Perché antepone le proprie emergenze personali a quelle geo-politiche, che interessano maggiormente la Lega. Nello stesso tempo, Bossi, come nella migliore tradizione del passato, si abbandona sempre più spesso a invettive contro il Sud e i professori. Meglio: i professori del Sud. Un distillato dei "nemici della Lega". Ma, soprattutto, un modo di segnare i confini del suo territorio di caccia, contro i nemici e gli amici. Peraltro, le due destre sono inevitabilmente attraversate da tensioni, che le scuotono anche dall'interno. È, infatti, lecito chiedersi se An abbia scelto di sciogliersi definitivamente così, senza neppure segnare dei confini. Perdendo memoria e identità, senza rimpianti. Se il suo leader Gianfranco Fini abbia, a sua volta, accettato di interpretare un profilo politico talmente basso da risultare quasi invisibile. In cambio di una successione alla guida del Pdl ancora molto incerta. Può darsi, però, che i leader di An, a livello locale e centrale, cerchino, abbastanza presto, di far valere il loro "mestiere", il loro peso organizzativo. Per contare di più. Che lo stesso Fini cambi stile. Magari solo per orgoglio personale. Per non apparire il n. 3 della coalizione. Magari il n. 4, contando Tremonti. Si accenderebbe, allora, qualche tensione in più. La nascita del Pdl, però, sta generando conflitti soprattutto nel Nord. Dove i governatori della Lombardia e del Veneto, Roberto Formigoni e Giancarlo Galan, si trovano ad affrontare una duplice sfida. 1) Con la Lega, che li considera concorrenti e occupanti "abusivi" di regioni a cui vorrebbe imporre la propria bandiera e i propri uomini. 2) Con il loro stesso partito. Divenuto assai più centralista, romano e meridionale di Forza Italia. Per questo Galan vagheggia Forza Veneto. Un soggetto politico regionalista. E sostiene l'ipotesi di una Euregio Alpeadria, che appare palesemente alternativa al Nord della Lega e al baricentro centromeridionale assunto dal Pdl. Mentre Formigoni tende a marcare le distanze dalle politiche del governo, in nome degli interessi della sua regione e del "modello lombardo". Da ciò i conflitti, anche violenti, fra i due governatori e i leader della Lega, ma anche del Pdl e del governo. A livello nazionale e locale. Ne è prova la discussione accesa, esplosa di recente fra Formigoni e Tremonti sulla ripartizione dei fondi per la spesa sanitaria. Chi, nel centrosinistra, "investe" su queste divisioni e profetizza l'implosione del centrodestra, però, non deve farsi troppe illusioni. Troppo larga la maggioranza. Troppo stretta - e divisa - l'opposizione. E troppo deludenti e frustranti le esperienze dei precedenti governi di centrosinistra. Gli italiani, anche se ve ne fosse l'occasione, si troverebbero, comunque, di fronte a una alternativa strana. A un bipolarismo singolare, che oppone due destre a tre-quattro sinistre. Sarebbe un bel dilemma. (La Repubblica, 21 luglio 2008)

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