di LUIGI LA SPINA
È una consuetudine, per la verità non solo italiana, quella di nascondere dietro grandi progetti, nati da ottime intenzioni, piccoli imbrogli, nati da personali interessi. Tradizione rispettata anche nel decreto Alitalia, una legge che dovrebbe consentire il salvataggio della nostra compagnia di bandiera, ma che avrebbe potuto anche salvare dai guai giudiziari alcuni grandi manager italiani, da Tanzi, a Cragnotti, a Geronzi.Come al solito, è stata rispettata anche un’altra tradizione: quando viene svelato il trucco, la ricerca dei mandanti della poco onorevole operazione si perde nell’anonimato di piccoli peones parlamentari, subito scaricati da tutti e costretti a immolarsi, solitari e comodi capri espiatori, al ludibrio generale. Con i presunti beneficiari che si dichiarano ignari di tutto, i presunti sostenitori della maggioranza che si ritraggono indignati dal sospetto che si possa dubitare della loro superficialità e persino i presunti avversari dell’opposizione che proclamano non si possa non credere alla loro dabbenaggine.Veri, verosimili o fantasiosi i retroscena che si raccontano in queste ore sulla vicenda, sarebbe troppo cinico, ma soprattutto poco avveduto, l’atteggiamento di chi tende a circoscrivere la vicenda come uno dei tanti episodi di malcostume politico, una gaglioffa furbata che solo l’arroganza del potere poteva pensare passasse impunita. A tutti costoro, in buona o cattiva fede, manca completamente la sensibilità nell’avvertire i sentimenti che in questi giorni agitano il nostro Paese. Quando, di fronte alla gravissima crisi finanziaria mondiale, alla possibile incombente crisi economica, la credibilità e la fiducia dell’opinione pubblica in coloro che li governano è l’unica arma contro il dilagare di una incontrollata paura. Il vero pericolo di fronte al quale nulla varrebbero i provvedimenti che governi e autorità finanziarie di tutto il mondo hanno approvato.A questo proposito, bisogna dare atto a Casini che ha denunciato la questione in Parlamento e soprattutto a Tremonti di aver colto la gravità del segnale che la classe politica, tra complicità e indifferenza, stava mandando ai cittadini. Il ministro del Tesoro, con un drastico aut-aut che metteva in gioco la sua permanenza alla guida del dicastero, ha costretto alla frettolosa e vergognosa ritirata proponenti dichiarati e ispiratori occulti dell’emendamento truffaldino.La «ragion di Stato» e anche la responsabilità di tutti coloro che, in questi giorni, hanno il compito di informare l’opinione pubblica, giornalisti compresi, corrono su un binario assai stretto. Da una parte, occorre non drammatizzare una situazione che soprattutto e solo dal panico potrebbe essere compromessa, con conseguenze catastrofiche. Dall’altra, non nascondere con generiche promesse di assolute garanzie la gravità dei fatti avvenuti e di quelli che potrebbero avvenire. Anche perché la rapidità con cui le bugie sparse a piene mani, in queste ore, sono state svelate, può compromettere la credibilità di qualsiasi promessa o semplicemente previsione sul futuro avanzate da quegli stessi protagonisti della crisi.L’elenco delle false rassicurazioni, purtroppo, è lungo. Ci avevano detto che le difficoltà finanziarie avrebbero toccato solo le banche americane, spregiudicate e irresponsabili. Poi, che solo qualche banca europea poteva essere contagiata, ma che sicuramente tutte le banche italiane avevano una capitalizzazione largamente sufficiente a fronteggiare qualsiasi esigenza di liquidità. Infine, che l’economia reale, quella che non si regge sulle carte, ma sulle fabbriche e sulle merci, era al riparo, dietro solidi salvagenti. Tutti conforti verbali che si sono trasformati in inquietanti boomerang nell’opinione degli italiani.I banchieri non possono operare senza la fiducia. I governanti senza la credibilità delle loro parole. Se dietro alle parole vuote si nascondono, poi, piccole o grandi truffe, non possono lamentarsi di non riuscire a convincere gli italiani, anche quando avrebbero ragionevoli argomenti per riuscirci.
(Fonte: La Stamp, 10/10/2008)
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