venerdì 2 gennaio 2009

Bersani: Proposte per uscire dalla crisi

NO AL PROTEZIONISMO
di Pierluigi Bersani, Ministro Ombra dell’Economia
Siamo nel pieno di una tempesta finanziaria che può riversare effetti rilevanti sull’economia reale. È un drammatico passaggio di fase. Non cade la globalizzazione. Cade l’interpretazione finanziaria della globalizzazione. La miccia si è accesa sui mutui ipotecari, si è estesa al sistema di cartolarizzazione dei prestiti, agli abnormi meccanismi piramidali, ai rapporti interbancari. Ovunque si invocano garanzie pubbliche o in via di riparazione o in via preventiva. Anche coloro che hanno stampato moneta falsa per mettersi in tasca quella buona e hanno infettato il mondo cercano oggi riparo presso lo Stato. I contribuenti, a cominciare dagli Stati Uniti, si convincono a pagare per evitare guai peggiori. Il rischio che si intravede non è solo il crollo del castello di carta della finanza creativa.
Ci saranno, in una qualche misura inevitabili effetti depressivi e recessivi sull’economia reale. Se andiamo più a fondo nell’analisi di quel che è avvenuto ci accorgiamo di essere stati sospinti a questo esito drammatico da un modello che è invalso in particolare negli Stati Uniti e che ha affidato alla finanza un compito sostitutivo della crescita dei redditi da lavoro e della funzione della redistribuzione, quasi che toccasse alla finanza esprimersi come una specie di nuovo Welfare. In questo passaggio critico può e deve prendere forma e, già dalle prossime ore, non solo una politica europea mirata all’emergenza, non solo un rafforzamento ed una integrazione continentale della regolazione e del controllo dei mercati finanziari, ma anche, finalmente, un coordinamento delle politiche di bilancio per sostenere la domanda e per stimolare le attività economiche a cominciare dai problemi dell’accesso al credito per le imprese e per le PMI in particolare; a cominciare da un piano europeo per le infrastrutture e la crescita, secondo quella che fu l’ispirazione di Delors quasi venti anni fa, ispirazione di cui la destra di oggi produce fotocopie ritoccate dopo aver bloccato l’originale.
Per quanto riguarda i possibili riflessi protezionisti, nazionalisti e statalisti di questa crisi, vorrei sgombrare il campo dalle troppo facili palinodie. Solo il servo encomio, incredibile e imbarazzante, verso il Governo e il Ministro del Tesoro impedisce che venga fatta in questi giorni al Ministro Tremonti una semplice domanda: chi nel 2003 voleva introdurre pari pari il sistema dei mutui ipotecari americani a fini di rilancio dei consumi e di Welfare implicito? Come ci si può dimenticare oggi di una vicenda che impegnò le prime pagine dei giornali e che fu stoppata dall’opposizione in primo luogo nostra. Come ci si dimentica dell’abnorme sviluppo che avemmo allora della finanza creativa, delle parossistiche cartolarizzazioni e del via libera dell’accesso degli Enti locali a strumenti finanziari rischiosi.
Tutto questo fece di noi uno dei migliori mercati per le banche d’affari del mondo. Ma noi abbiamo un’altra idea. Ribadiamo che per l’Italia propugnare protezionismi significa tagliare il ramo su cui siamo seduti. Il che non significa in nessun modo negare l’esigenza di una regolazione molto più stringente, a cominciare dalla finanza, e di ragionevoli misure difensive contro speculazioni ed effetti dumping di ogni genere. Ma siamo totalmente contrari all’idea che lo stato occupi spazi propri mentre abbandona quelli suoi. Ci vuole più stato. Siamo i primi a dirlo e lo diciamo prima di ogni altro. Ma più stato dove? Oggi lo stato deve garantire le protezioni sociali rafforzando le strutture universalistiche e non concedendo al mercato la risposta a bisogni fondamentali. Lo stato deve garantire politiche fiscali progressive e redistributive più efficaci; promuovere a livello internazionale ed allestire a livello nazionale strutture e strumenti più pertinenti ed efficaci di regolazione e controllo dei mercati; determinare standard e politiche attive che sollecitino innovazione e qualità nella produzione e nei consumi; garantire lo sviluppo e il radicamento nazionale (in attesa di quello europeo) di fondamentali reti strategiche materiali e immateriali; occuparsi di capitale umano, di infrastrutture, di ricerca, ecc...
Quante cose deve fare lo stato in economia, cose che non sta facendo o non sta facendo abbastanza! Il vero problema del Paese ha dei nomi chiari: prezzi, redditi, consumi, produzione. Così non va. È tempo di tornare alla realtà. L’ISTAT ci dice che 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al mese; che il 15% delle famiglie fatica ad arrivare a fine mese, che il 28% non può fare fronte ad una spesa imprevista, il 10% è in ritardo per il pagamento di bollette, il 4% non ha soldi per spese alimentari, il 10% per spese mediche, il 16% per l’abbigliamento. Se guardiamo al Sud queste percentuali raddoppiano. Intanto l’inflazione tendenziale ci porta sopra la media europea dopo un anno in cui eravamo andati sotto la media europea. Questa inflazione non è ascrivibile né alla domanda interna né alle retribuzioni e quindi si scarica senza riparo alcuno sui redditi medi e bassi mentre i contratti si fanno con un ritardo medio di 12 mesi, il fiscaldrag non viene recuperato, le pensioni si svalutano, la produttività non va in tasca ai lavoratori.
Ovviamente i consumi si riducono, come mai negli ultimi anni, le attività economiche orientate al mercato interno si indeboliscono, cresce l’incidenza della precarietà. Riprende a crescere la disoccupazione, si affaccia un picco della cassa integrazione con una ulteriore diminuzione della massa salariale spendibile, in un circuito vizioso che si auto alimenta. Ovvio che i dati sul PIL segnalino questo andamento recessivo con il tendenziale peggiore d’Europa. Di fronte a questa vera emergenza il Governo è muto. Non c’è politica economica, e quando c’è è al rovescio. Non è questione di assenza di risorse. Quando si vuole le risorse si trovano come si è visto in questi mesi partendo dall’Ici ed arrivando ad Alitalia. Per quanto riguarda il Partito Democratico alcune delle proposte per uscire dalla crisi possono essere:
1. diminuzione della pressione fiscale sulle retribuzioni medio-basse con detrazioni fiscali, revisione delle aliquote, o restituzione del drenaggio fiscale, estensione della 14a già varata dal Governo Prodi per 3 milioni di pensionati fino alle pensioni di importo di 1.000 euro.
2. un nuovo patto sulla fiscalità attraverso meccanismi che consentano davvero emersione e tracciabilità, anche al prezzo purtroppo inevitabile di qualche adempimento che può gravare anche sui contribuenti onesti
3. un rafforzamento del potere di acquisto dei lavoratori, attraverso promozioni e redistribuzione di guadagni di produttività, allestendo adeguati meccanismi di riparo dall’inflazione e garantendo un ordinato, puntuale ed efficace andamento della contrattazione.
4. un immediato intervento a favore del cittadino - consumatore, con il trasferimento di risorse dai settori protetti alle tasche dei cittadini.
5. la garanzia che il contenimento della spesa decentrata non intacchi i servizi sociali fondamentali.
Noi cresciamo meno di ogni altro paese europeo e questo avrà pur qualcosa a che fare con il fatto che la forbice fra i redditi è da noi la più alta d’Europa e con il fatto che la mobilità sociale è da noi la più bassa. Per crescere economicamente serve dunque più uguaglianza e cioè piena affermazione dei diritti sociali, sviluppo di politiche redistributive, riduzione del divario fra i territori. Per crescere di più serve più libertà e cioè la rottura di conservatorismi e il coraggio di riforme che attacchino meccanismi relazionali, corporativi, regressivi che imprigionano le nuove generazioni e le dinamiche di innovazioni dei protagonisti economici e sociali. Su questi fronti e in alternativa alle ricette della destra populista, si possono portare dal cielo alla terra i valori di una sinistra democratica, popolare, liberale che essendo con convinzione se stessa può indicare un’altra strada al Paese.
*da Social News

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