Sintesi della deposizione testimoniale di Pietro Ichino resa davanti alla Corte d’Assise di Milano il 23 gennaio 2003, nel procedimento contro i 17 membri delle “nuove Brigate Rosse”
L’allarme è incominciato con l’assassinio di Massimo D’Antona, nel maggio 1999: fino a quel momento tutti pensavamo che il terrorismo fosse finito. All’inizio di quell’estate la Digos mi contattò per darmi alcuni consigli per la mia sicurezza.
Alla fine di quell’anno il ministro dei Trasporti Bersani mi chiese di continuare il lavoro di D’Antona all’Enav, per cercare di ricondurre entro limiti di correttezza e ragionevolezza un sistema di relazioni sindacali che sembrava impazzito. Accettai quell’incarico con qualche preoccupazione per la mia sicurezza. Nei tre anni successivi confesso che ero un po’ preoccupato: al mattino, quando uscivo di casa, pensavo che quello poteva essere il luogo dove sarebbe avvenuta l’aggressione e mi pareva di vedere in anticipo la scena della mia morte. D’altra parte, rinunciare a a dire e scrivere quel che penso avrebbe significato subire l’intimidazione. Erano gli anni in cui collaboravo strettamente con Marco Biagi, che avevo chiamato a insegnare diritto comunitario del lavoro nel Master di cui ero Direttore e collaborava con me anche per la Rivista italiana di diritto del lavoro. Lui era ancora sotto scorta, prima che gliela togliessero. Mi ricordo che, parlando di questo pericolo, ci dicevamo che i nostri genitori e i nostri nonni erano stati chiamati a rischiare la vita su frontiere che meritavano assai di meno quel sacrificio: a noi toccava rischiarla su di una frontiera che lo meritava molto di più, quella del progresso civile, della difesa della Costituzione repubblicana, della libertà di pensiero e di parola.
Poi a lui la scorta venne tolta; e pochi mesi dopo venne ucciso sulla porta di casa. Il giorno dopo quell’assassinio, il 20 marzo 2002, venne immediatamente attivata la protezione per me. E da allora vivo sotto scorta.
Nel febbraio 2003 ci fu un’improvvisa intensificazione dell’allarme: un giorno per l’altro venni avvertito che avrei dovuto viaggiare sempre con un’auto blindata e un’altra auto al seguito, con cinque agenti; viaggiavamo sempre a sirene spiegate, mi accompagnavano anche in Università con le armi imbracciate. Poche settimane dopo capii meglio il perché, quando ci fu la sparatoria sul treno, nella quale venne ucciso Galesi e venne catturata Nadia Lioce: la polizia aveva notizia della preparazione di un attentato contro un giuslavorista particolarmente impegnato sul terreno delle riforme e aveva ragione di ritenere che potessi essere io il bersaglio.
Qualche tempo dopo quell’episodio la scorta è stata di nuovo ridotta a due soli agenti con una macchina. Fra il 2004 e il 2005 ho chiesto un paio di volte al Prefetto di Milano se non fosse il caso di revocare il dispositivo di protezione; e tutte le volte mi rispose che non era ancora il momento per farlo.
Nel giugno 2006, quando il Governo Prodi si era insediato da pochi giorni, il neo-ministro Tommaso Padoa Schioppa annunciò che sarebbero stati necessari alcuni tagli nella spesa pubblica. Poiché mi pareva che ormai il pericolo fosse cessato, colsi l’occasione per scrivergli una lettera, proponendogli di incominciare dal taglio della mia scorta. Nel settembre successivo, invece, il Prefetto mi convocò per dirmi che erano sopravvenuti motivi gravi, riguardanti specificamente me, per non abbassare la guardia. E nel febbraio 2007 capii quali erano quei motivi: fin dall’estate dell’anno prima era in corso un’indagine della Digos, dalla quale emergeva che un nuovo gruppo di terroristi aveva proprio me nel mirino: avevano fatto degli appostamenti e stavano preparando un’aggressione.
Così mi è toccato continuare a girare con la scorta, ad avere i due agenti alle costole anche in Università, davanti alla porta del mio studio, nell’aula in cui facevo lezione. Anche questa è una mortificazione, perché in qualche misura incide sul rapporto educativo tra me e i miei studenti; quei due agenti significano che, per le cose che insegno, che sostengo, che scrivo, c’è qualcuno che mi vorrebbe morto; qualcuno che considera quelle cose delittuose, addirittura mostruose: altrimenti perché le si considererebbero meritevoli della pena di morte? In qualche misura questa minaccia è rivolta, indirettamente, anche a loro, agli studenti: è come dire loro che stiano attenti, che non mi credano, che le mie idee sono pericolose come la peste.
Ma, soprattutto, quella minaccia è rivolta all’intera comunità dei giuslavoristi: è il loro dibattito che viene falsato, inquinato dall’intimidazione. Ne è leso nella sua libertà anche chi dissente dalle mie idee, perché non può esprimere il suo dissenso con la stessa serenità con cui lo farebbe in qualsiasi altro Paese civile, dove il dibattito è veramente libero.
(Fonte: www.pietroichino.it)
Nuove Br, Ichino insultato in aula: «Difendo la libertà»Non gli hanno risparmiato nemmeno gli ultimi insulti, quando è uscito dall'aula, dopo aver testimoniato. I parenti e gli amici dei presunti terroristi delle "Nuove Br" - sotto processo a Milano - lo hanno aspettato all'uscita e hanno inveito contro di lui.Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, è rimasto sereno, lui che, per gli inquirenti, era proprio uno degli obiettivi del gruppo che si rifaceva alla "seconda posizione" delle Br.«Sono uno che dice cose per le quali rischia di essere fatto fuori e in questo processo, da parte civile, difendo la libertà di pensiero», ha spiegato il professore milanese di diritto del lavoro, testimoniando davanti ai giudici della prima Corte d'Assise.Prima che iniziasse a parlare, uno dei 17 imputati, tra i leader del Partito comunista politico-militare, Davide Bortolato, ha voluto rilasciare una dichiarazione spontanea: «Siamo contenti di averlo qui - ha detto con tono ironico - contenti che siano presenti come parti civili lui, lo Stato e i fascisti di Forza Nuova (una sede subì un attentato, ndr). Ciò dimostra che questo è un processo politico, dove sono rappresentati gli sfruttatori e chi lotta per i diritti dei lavoratori».Quando Bortolato ha proseguito dicendo «il qui presente Ichino si è fatto una carriera criminalizzando i lavoratori», il presidente della Corte, Luigi Cerqua, l'ha interrotto, mentre dalle gabbie partivano i primi insulti contro il professore e parenti e amici degli imputati applaudivano.Tornata la calma, Ichino ha raccontato i suoi «quasi 10 anni di vita in allarme», che vanno avanti tuttora, sotto scorta, anche dopo gli arresti del febbraio 2007. Nel '99, quando venne ucciso dalle Br di Nadia Desdemona Lioce il suo collega Massimo D'Antona, gli agenti in borghese cominciarono ad aggirarsi con discrezione alla Statale, dove Ichino insegna. «Il ministro Bersani mi chiese di assumere il posto che era di D'Antona all'Enav ed io lo feci consapevole dei rischi che corre chi si occupa di riformare il diritto del lavoro».Nel 2002 le Br ammazzarono anche Marco Biagi e al professore diedero la scorta. «Una vettura e due agenti che diventarono due vetture e cinque agenti, quando il prefetto mi telefonò per dirmi che c'erano elementi di maggior allarme». «Una situazione, quella del vivere sotto scorta, che, ha spiegato Ichino, anche la mia famiglia ha sempre sopportato». «Questo sacrificio - ha aggiunto - è dovuto all'intimidazione permanente, al dissenso armato, che minaccia l'intera comunità dei giuslavoristi italiani, cosa che all'estero non esiste e che da noi è una cappa di piombo, che limita la serenità del dibattito». Proprio mentre Ichino stava spiegando la sua decisione di costituirsi parte civile nel processo («Lo faccio, ha detto, perchè questa intimidazione pesa sull'intero Paese, dove chi tocca lo statuto, muore»), i mugugni di imputati e parenti si sono trasformati in grida: «Sei un massacratore di operai». Il presidente della Corte ha fatto allontanare dalle gabbie tutti gli imputati (Davide Bortolato, Claudio Latino, Alfredo Davanzo, Vincenzo Sisi e Massimiliano Toschi) e poi ha riammesso il solo Bruno Ghirardi, che non aveva detto nulla. Alla ripresa, le difese, e in particolare l'avvocato Sandro Clementi, hanno insistito nel chiedere a Ichino se avesse mai ravvisato elementi concreti d'allarme e il giuslavorista ha risposto: «Ho potuto leggere le conversazioni telefoniche tra gli imputati e ho avuto la conferma che un gruppo dotato di armi mi considerava un obiettivo». E ha concluso: «L'ultima conferma poi l'ho avuta stamattina». Oggi sono stati esaminati anche due degli imputati, Andrea Tonello e Davide Rotondi. Quest'ultimo ha spiegato di essere «stanco di sentire il termine terrorista». Solidarietà al giuslavoralista è arrivata da tutte le forze politiche. Se il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha dichiarato: «Desidero rivolgere la mia più intensa solidarietà per le inquietantiintimidazioni subite oggi a Milano, proprio nel luogo istituzionalmente preposto a garantire il rispetto della legalità a presidio della nostra democrazia», il vicepresidente del Senato Vannino Chiti (Pd) ha detto: «Rivolgo a Ichino la mia solidarietà per le vergognose minacce subite oggi da persone che, evidentemente, ignorano colpevolmente i concetti di dialogo, rispetto e tolleranza». Compatto il sindacato nella manifestazione di solidarietà al senatore. Il processo prosegue il 2 febbraio con i primi testi delle difese.
(Fonte: IlSole24Ore)
Nessun commento:
Posta un commento